CIVICA RACCOLTA D'ARTE | 5 – Chiarismo e chiarismi
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5 – Chiarismo e chiarismi

 

AUDIOGUIDA:

 

Fu da questa stanza che Giuseppe Garibaldi, il 27 aprile 1862 si affacciò alla popolazione per parlare di “patria d’armi e di santa concordia tra i liberi” come ricorda la lapide posta all’esterno, opera dello scultore cremonese Francesco Riccardo Monti. Proprio di fronte a questa sala si staglia l’imponente corpo della chiesa parrocchiale che conserva, al suo interno, preziosi capolavori come Il Cristo risorto appare alla Vergine, opera del periodo della maturità del Tiziano, e il gruppo del Compianto sul Cristo morto, sulla cui attribuzione la critica si divide tra Guido Mazzoni, detto il Modanino, e l’ambito mantegnesco. Da questa sezione si sviluppa il percorso all’interno del più importante fil rouge della collezione. Se la storia di quest’ultima è una storia d’amore, il colore di questa storia appare essere quello di un movimento (ma che vero e proprio “movimento” non fu) artistico degli anni Trenta del Novecento: il Chiarismo

«Una folla di giovani artisti sbuca fuori dall’oscurità e dell’anonimo, già agguerriti ed esperti. Tra questi, che si affacciano per la prima volta alla notorietà, mi piace accennare a Umberto Lilloni. Da quattro anni ad oggi persegue una strada di solitario e raccolto ardore per la sua arte, che lo conduce ormai assai lontano, a risultati assai concreti e apprezzabili». Con queste parole Margherita Sarfatti presentava l’arte di questi nuovi artisti, “operai qualificati” che stavano conducendo una «battaglia  accanita, seppur silenziosa e senza parate, contro il gusto e le aspirazioni dei pittori neo-borghesi» dirà in seguito Edoardo Persico, critico napoletano e figura di riferimento teorica fondamentale per tutti i chiaristi. Cinque furono gli iniziatori di questa stagione artistica: Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, Cristoforo De Amicis e Adriano Spilimbergo.

Questi nuovi artisti, presi da un “irrefrenabile raptus poetico” (sono le parole di Piero Torriano su «La Casa Bella» nel 1932), mirano ad un’espressione primitiva che non rimanga, però, rimpianto, nostalgia e ripetizione. Sensibilità, raccoglimento, malinconica solitudine sembrano essere i motivi e le forze comuni ad una koiné artistica che mai si delineò in “movimento” o in “gruppo”, come altri fecero attraverso manifesti ed etichette solide ma anche asfissianti.
È per questo motivo che possiamo dire che, se è esistito un momento artistico definito come il Chiarismo, ciò è avvenuto poiché sono esistiti tanti “chiarismi”, tanti modi di concepire e di declinare una “pittura di sensibilità”, impostata sulle possibilità espressive del colore che prendeva le distanze dal movimento e dai sentimenti novecentisti così protagonisti in quegli anni. «Qui si ritorna al fare piatto, alla deformazione espressiva, al puro colore, all’irrazionale, all’incosciente. La pittura vuole rifarsi egoista: dar voce a tutto ciò che v’è di più intimo e personale; ridursi all’espressione grezza, immediata, primigenia; suggerire con pochissime note estrose, improvvise, quasi dettate dal sogno. Bellissime cose» (Piero Torriano). Se il termine “chiarismo” fu impiegato per la prima volta nel 1935 dal pittore e critico Leonardo Borgese recensendo la presenza dei giovani Lilloni, Del Bon, De Rocchi e Spilimbergo alla VI Mostra Sindacale lombarda, esso verrà ripreso dallo scrittore Guido Piovene commentando la personale di Lilloni alla Galleria Grande di Milano nel 1939. Il termine voleva descrivere quella pittura che sostituiva ai valori plastici e volumetrici del Novecento, il predominio dei valori tonali e cromatici in un lirismo intenso di luce e di colore formale. L’origine di questa maniera faceva riferimento ad una modalità che Renato Birolli (precursore insieme ad Aligi Sassu del Chiarismo) utilizzava alla fine degli anni Venti, stendendo «su di una tela di canapa pura un sottile strato di bianco di zinco […] A bianco ancora fresco, dipingevo su questo strato ottenendo una coloritura chiara, vibrata, quasi da affresco» (Renato Birolli). Nonostante questa tecnica non fu certamente unica per tutti gli artisti, essa rimane un elemento importante di riferimento. Come ricorda Elena Pontiggia «il problema del chiarismo non è il colore chiaro […] ma l’uso del colore in funzione antiplastica, fino a giungere a un’attenuazione della volumetria con effetti di bidimensionalità». Sempre la Pontiggia riconosce due percorsi diversi, dal profondo sentimento filosofico, all’interno di questa costellazione: da un lato una liricità dagli accenti ansiosi, esistenziali (Del Bon, De Rocchi, De Amicis, Marini), dall’altro una dimensione sospesa tra fiaba e sogno (Lilloni, Spilimbergo, Facciotto). Ecco le figure minime, esistenze disorientate, il cui sguardo si avvicina maggiormente a quello curioso e insicuro di un bambino che a quello sapiente dell’adulto.

«Lilloni, che è soprattutto un paesaggista, porta di suo una grafia delicata, il segno gracile e incantevole di un pittore orientale su sfondi miti e trasparenti: diresti che la sua è una sublimazione della pittura su seta o vetro» (Guido Piovene).

Nell’arte di Angelo Del Bon ritroviamo, oltre all’amore per la pittura francese d’avanguardia nell’Ottocento, anche un inedito e profondo interesse per l’arte e la cultura orientali, e, in particolar modo, per quelle stampe cino-giapponesi pulite ed istantanee.

Francesco De Rocchi riassume perfettamente la poetica di questi artisti: «Eliminiamo […]  i gravami novecenteschi, le terre cupe e il bitume; apriamo la pittura alla sorgente della luce naturale. Principalmente apriamo la pittura a chiarezza di idee, poiché chiarismo non significa soltanto dipingere col bianco, ma fusione della luce e del colore nella forma».

Se Milano rimane il centro ed il riferimento di questo periodo artistico, l’alto mantovano si propone come una terra feconda per quello che verrà definito in seguito come il “chiarismo mantovano”. Medole e la vicina Castiglione delle Stiviere formeranno un vero polo di sviluppo di un linguaggio nuovo e chiaro, maggiormente improntato al paesaggio e alla natura. Nata nel 1933 grazie al lavoro comune di Del Bon e Marini, conosciutisi poco tempo prima a Milano grazie a Lilloni (il cui padre è di Medole e dove l’artista ritornerà spesso per lunghi soggiorni), la “scena” castiglionese agirà fin da questi primissimi anni come un laboratorio estetico in grado di produrre altissimi risultati. Giuseppe Facciotto, nato nella vicinissima Cavriana, si trasferirà a Castiglione nel 1917. Nonostante non sia possibile limitare la sua ricerca artistica al solo Chiarismo, nelle opere qui esposte è possibile ritrovare quel sentimento chiaro declinato secondo un’intensità lirica che non sembra avere uguali nei compagni di viaggio.

Carlo Malerba, nato a Bastida Pancarana, in provincia di Pavia, lascerà la terra natale per giungere a Castiglione a soli quattro anni. Dopo la laurea a Roma in Economia e Commercio, Malerba si trasferirà a Milano iniziando a frequentare gli ambienti artistici. Nel 1932 è a Medole dove dipinge con Lilloni e a Castiglione dove frequenterà Del Bon. Lunghi saranno i suoi soggiorni nelle nostre terre e proprio qui produrrà quelle opere che Elena Pontiggia descrive come «animate da un sentimento panico della natura e insieme scosse d una segreta ansia esistenziale».

Ermanno Pittigliani appartiene ad un gruppo ancor più limitato e discreto: quello degli scultori chiaristi. Se il riferimento più importante rimane senza dubbio Broggini, Pittigliani (che eccelle anche nel linguaggio pittorico) darà il suo apporto grazie ad una scultura che tenta il distacco dalle forme statiche degli anziani artisti dell’epoca, avanzando un movimento e una freschezza convincenti testimoniati dalle due piccole testine qui esposte.